Roma, 04 nov. – “Non si può separare il tangibile dall’intangibile”: è in questa frase, pronunciata da Munyaradzi Manyanga, preside della Robert Mugabe School of Heritage presso la Great Zimbabwe University di Masvingo, la chiave di lettura della nuova strategia africana per il patrimonio, al centro del simposio conclusivo del progetto Whaps – World Heritage in Africa, Fostering practitioners for nomination: processes and strategies, tenutosi ieri nella prestigiosa sede di Palazzo Poli, a Roma.
Un concetto ribadito alla rivista Africa, a margine del simposio, anche da Thomas Thondhlana, titolare della cattedra Unesco in Patrimonio culturale africano presso la stessa Great Zimbabwe University: “In Africa, un albero ha un’anima. Un fiume, un bosco, sono le dimore degli spiriti. Bisogna guardare al patrimonio nella sua totalità, non a compartimenti”.
Questo approccio filosofico, che supera la netta divisione occidentale tra “cultura” e “natura”, è diventato il cuore del programma Whaps, promosso dalla Scuola Nazionale del Patrimonio, il braccio formativo del ministero della Cultura, e dall’Iccrom, il Centro internazionale di studi per la conservazione e il restauro dei beni culturali. Come ha spiegato lo stesso Manyanga, i manager moderni devono “sfruttare il fatto che le comunità diano valore all’intangibile per gestire efficacemente il tangibile”. Secondo il preside della Robert Mugabe School of Heritage, infatti la cooperazione deve smettere di basarsi sull’idea di un continente “che ha bisogno di elemosina” e iniziare a valorizzare i “modi tradizionali di interpretazione” in un’ottica “decolonizzata”. A fargli eco è Pascall Taruvinga, capo del dipartimento di Antropologia presso la Rhodes University di Makhanda in Sudafrica, che ha posto l’accento sull’obiettivo finale: il “benessere” delle comunità locali, che devono poter “raccogliere piante medicinali” o “compiere una cerimonia” nei siti.
È proprio questa nuova filosofia che ha animato l’intera iniziativa. Per un anno, 30 professionisti africani non hanno solo studiato i dossier tecnici dell’Unesco, ma hanno analizzato i propri sistemi di gestione. Come spiegato dalle referenti del progetto, il focus è stato proprio sui “processi” e su “come le comunità beneficiano del patrimonio”, facendo emergere modelli di governance sociale unici, che rappresentano il vero cuore della tutela in Africa.
Il modello spirituale: dove il “tabù” è legge
In molti siti africani, la conservazione non è affidata a guardie armate, ma all’autorità spirituale. È il caso delle Foreste sacre dei Kaya Mijikenda in Kenya, un sito già Patrimonio Unesco presentato da Julius Shoboi Mwahunga. Qui la gestione è affidata a un consiglio di “anziani Kaya”. Sono loro che, attraverso “codici di etica” e “tabù” tradizionali (come il divieto di taglio o di caccia), applicano un sistema di conservazione integrato che protegge la biodiversità. Un modello simile protegge il Bosco Sacro di Osun-Osogbo in Nigeria, dove le leggi spirituali Yoruba salvaguardano una delle ultime foreste primarie del sud del Paese.
Il modello matriarcale: l’eredità delle donne
Forse il caso più emblematico di patrimonio sociale è quello del villaggio per la produzione del sale di Kibiro, in Uganda, per cui la ricercatrice del Museo Nazionale di Kampala Eunice Ngangeyu sta curando il dossier di candidatura alla lista Unesco. Qui, da più di 900 anni, la produzione di sale con complesse tecniche indigene è un’attività gestita quasi esclusivamente da donne. Il vero “sistema di gestione” è sociale: la proprietà stessa dei “giardini di sale” viene tramandata per linea femminile, da madre a figlia o da zia a nipote. Ed è questo sistema matriarcale che garantisce la continuità di un sapere secolare, oggi minacciato dall’abbandono delle nuove generazioni, che ritengono il lavoro troppo “noioso” (tedious) e poco in linea con gli interessi contemporanei.
Il modello artigiano: il “saper fare” come tutela
In contesti dove il patrimonio è fisicamente vulnerabile, la tutela coincide con la trasmissione del “saper fare”. Ne è un esempio lo Ksar di Ait-Ben-Haddou in Marocco, il celebre villaggio fortificato in terra cruda. Come spiegato dal curatore Omar Idtnaine , la gestione si basa su un “modello partecipativo” che ha al centro i “mâalems” (mastri costruttori). Sono questi artigiani locali che, tramandando le “tecniche di costruzione tradizionali in terra” ai giovani, assicurano la manutenzione del sito – spesso prima della stagione delle piogge – e creano un’economia locale che resiste alla pressione del turismo di massa.
Il modello testimoniale: la memoria come gestione
Infine, ci sono siti dove il patrimonio non è la pietra, ma la memoria immateriale che essa custodisce. È il caso di Robben Island in Sudafrica, la prigione simbolo dell’apartheid. Come illustrato da Quahnita Samie, membro del consiglio del Museo, la gestione del sito e della sua “narrazione” non è lasciata solo agli storici, ma esiste un “Comitato consultivo degli ex-prigionieri politici (Epps)” partecipa attivamente per “migliorare la narrazione e l’interpretazione”, garantendo l’autenticità della memoria. La sfida, ora, è il passaggio generazionale, affidato a “programmi educativi” e “tecnologie digitali”.
Questi modelli, e molti altri emersi a Roma, non sono folklore. Come ha sottolineato Munyaradzi Manyanga, sono in realtà la vera “infrastruttura” sociale su cui l’Africa sta costruendo il futuro del suo patrimonio. Il progetto Whaps ha avuto il merito di riconoscerli, riunirli in una rete e dare loro gli strumenti per formalizzare questi processi e renderli più forti di fronte alle sfide globali. [Agenzia Infomundi – Infocoopera]
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